Direttamente dalle parole di Rita Erica Fioravanzo – fondatrice e presidente dell’Istituto Europeo di Psicotraumatologia e Stress Management – il primo incontro con i libri letti per voi, in ‘ottica IEP’. Ecco quattro ottimi motivi per leggere Come può uno Scoglio? Come tornare a vivere se non si ha più speranza di Benedetta Doriguzzi Bozzo, fresco fresco di stampa.
Il libro che vi consiglio di leggere questo mese è il racconto autobiografico appena pubblicato di Benedetta Doriguzzi: Come può uno Scoglio? Come tornare a vivere se non si ha più speranza, Edizioni Booksprint, 2021.
Come può uno Scoglio è un racconto eccezionale e prezioso per infiniti motivi, qui ne voglio descrivere quattro che sono, a mio parere, le pietre miliari di questo testo.
Rita Erica Fioravanzo
ATTRAVERSARE IL TRAUMA IN SOGGETTIVA
Il primo motivo è che questo libro ci fa percepire ciò che accade a chi attraversa un evento drammaticamente traumatico dai suoi stessi occhi. Ciò non è affatto scontato.
Abbiamo migliaia di pagine di letteratura scientifica su tutta la vasta gamma di reazioni traumatiche che le persone hanno dopo essere sopravvissute a eventi critici, tutte scritte da osservatori competenti ma esterni alla persona stessa. Psicologi, psichiatri, neurofisiologi hanno negli anni descritto minuziosamente gli effetti dei traumi sulle persone che li subiscono ma ben pochi sono invece i racconti scritti in prima persona da coloro che hanno affrontato un evento traumatico, racconti che ci descrivano le reazioni successive a un trauma dal punto di vista di chi le sta patendo, senza filtri diagnostici o nosografici, semplicemente attraverso la dura cronaca di che cosa significhi convivere con gli effetti psichici e a volte anche fisici di un trauma.
Siamo in un’epoca dove si sente continuamente parlare di traumatizzazione, spesso anche a sproposito, e dove nei congressi di psicotraumatologia guardiamo per ore e ore foto di risonanze magnetiche dove relatori trionfanti mostrano le differenze anatomofisiologiche tra la corteccia cingolata anteriore di persone normali e quella di pazienti affetti da disturbi psico-traumatici; oppure discettano dei differenti tassi di cortisolo rilevati nel loro sangue.
Questo fa certamente bene alla ricerca e alla clinica ma se poi non siamo capaci di calarci nella realtà vissuta, esperita col corpo, coi sensi e con la mente di chi è portatore o portatrice di quella corteccia cingolata rischieremo di aggravare la tendenza contemporanea che è quella di saper curare sempre meglio i corpi (cervelli inclusi) ma non le persone che abitano quei corpi e quei cervelli.
Dobbiamo quindi enorme gratitudine a chi, come l’autrice, ci guida in questa esperienza viva e ci insegna cose che nessun manuale ci potrebbe insegnare.
LA SINTASSI DEL DOLORE
Il secondo motivo che rende questo libro straordinario è che Benedetta Doriguzzi ci de-scrive i fatti e i pensieri esattamente come li sente e non come serve a noi poterli leggere.
Per questo motivo la sintassi e l’ortografia della sua scrittura appaiono così difformi e a volte contrapposte alle convenzioni del testo scritto, perché esse si plasmano fedelmente sulla forma delle sue percezioni, del suo sentire, del suo flusso vitale: spezzata, interrotta, congelata dal trauma subito.
La sua scrittura è lo specchio fedele del modo in cui
le esperienze si articolano
nella mente di una persona traumatizzata.
Per questo, il linguaggio del suo testo può apparire strano, inconsueto alle menti che non hanno conosciuto quell’esperienza, ma chi invece è stato toccato da un trauma o ha avuto accanto a sé persone che lo sono state non farà fatica a riconoscere il ritmo, la cadenza, la diastole del dolore con cui convive chi sopravvive.
La scrittura di Doriguzzi è potente proprio perché non lascia che la normatività grammaticale e letteraria abbellisca, addomestichi, occulti il racconto del dramma che ha vissuto.
Al contrario ogni sua frase disvela quel dramma. Di qui:
- gli a capo subitanei all’interno di uno stesso periodo, a indicare la cesura, l’interruzione brutale, la fatica a ricostruire una continuità di vita;
- la mancanza di connettori sintattici fra le frasi, perché nel trauma la causa e l’effetto si confondono, si capovolgono si mescolano in un gomitolo indistinto;
- i cambi di font quando le parole vengono da altri mondi come quelli della diagnosi clinica, a indicarne l’estraneità, la barriera che l’emozione mette fra realtà e pensiero quando la realtà non è accettabile;
- l’oscillazione fra i verbi al passato e quelli al presente che non segue affatto la sequenza temporale delle vicende ma esclusivamente il tempo soggettivo della coscienza, fatto di istanti unici non ingabbiati nella vettorialità spaziale del tempo misurabile, come ci ha così bene insegnato Bergson;
- l’espressione del trascorrere dei mesi indicata con quell’artefatto linguistico dove il numero in cifre non è separato dal nome ‘mesi’ proprio a indicare la durata del tempo psichico percepito spesso come fermo, indistinguibile, ben lontano dalla cronologia misurabile del mondo esterno (sempre Bergson paragonava quest’ultimo a una collana ben ordinata di perle e il primo a un gomitolo ingarbugliato);
- le parole e le frasi in maiuscoletto perché lì la voce interiore grida, chiede ascolto;
- le poesie che arrivano all’improvviso nel testo, proprio come nella mente di chi cerca conforto nei poeti che hanno saputo esprimere l’inesprimibile, che hanno inventato le parole per dire l’indicibile.
È questo calco percepibile e autentico che ci consente di capire che cosa avviene nella mente di chi ha avuto la vita spezzata da un evento traumatico e ha dovuto riattaccarla, pezzo a pezzo, giorno dopo giorno, per anni e anni.
La via che percorriamo nel tempo è cosparsa dei frammenti di tutto ciò che cominciavamo ad essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare.
(Henri-Luis Bergson).
PEZZO PER PEZZO
Il terzo motivo della preziosità di questo libro è il processo che emerge dalla storia che Benedetta Doriguzzi ci racconta. La via di una ricostruzione difficile e faticosa del senso di sé; la lotta contro le sirene della rinuncia che nella nebbia bisbigliano le parole della resa, dell’abbandono, dell’a-che-cosa serve-andare-avanti; la fatica quotidiana di rinegoziare da capo il rapporto fra la nostra volontà e il nostro corpo, fra intenzione e gesto, fra desiderio e azione.
Quel processo è disegnato nel libro nei suoi stadi indispensabili: la denegazione, il rifiuto, la rabbia, lo sconforto, la speranza, l’accettazione della sfida a ricominciare nel qui, nell’ora.
Solo per chi è senza speranza c’è data la speranza.
(Walter Benjamin, Angelus Novus)
UNA STORIA DI PASSIONE E CORAGGIO
E infine, la quarta ragione per cui ritengo questo libro eccezionale: il coraggio.
Tante cose sono state dette su ciò che serve alle persone traumatizzate per riprendere il cammino che il trauma ha interrotto: resilienza, capacità di sopportazione, fiducia nel futuro, volontà.
Nella realtà che tanto accuratamente Doriguzzi ci descrive risulta chiaro che ciò di cui ha più di ogni altra cosa bisogno chi sopravvive a un trauma – e ne vive le conseguenze per anni, a volte per tutto il resto della vita – è il coraggio; ma chissà perché pochi ne parlano.
Il coraggio è il vero protagonista del libro di Benedetta Doriguzzi.
Il coraggio di non rifugiarsi nell’apparente conforto di una vita da vittima; il coraggio di chiedere aiuto quando farsi aiutare significa ricapitolare il dolore; il coraggio di mostrare agli altri le sue ferite, anche quando essere feriti procura vergogna; il coraggio di sopportare la stupidità, l’arroganza, la prepotenza che il mondo rivela quando crede di sapere che cosa significhi portare ogni giorno dentro e fuori di sé i segni di un futuro spezzato; il coraggio di restare buoni, di restare gentili, di restare generosi quando ogni giorno si potrebbe invece misurare su se stessi ciò che di essenziale ci è stato ingiustamente sottratto, senza ragione né colpa.
Questo libro narra il coraggio che l’autrice ha avuto ogni singolo giorno in questi anni, questo libro è il coraggio di lei diventato scrittura e lettura, affinché altri e altre si sottraggano all’omertà che spesso avvolge la vita di chi è stato segnato dall’esperienza di trauma.
Questo libro racconta la mia esperienza di vita dopo un grave evento che mi è accaduto a 17 anni e il percorso di recupero che mi sta guidando. Sono parole che, spero, riescano a coinvolgere persone spaventate o scoraggiate e le aiutino a trovare, dentro di sé, quel granellino di sabbia scuro, quell’ago nel pagliaio che riesca a strappare loro un sorriso per rialzarsi e provarci ancora una volta.
(dall’introduzione di Benedetta Doriguzzi)
UN INSEGNAMENTO PREZIOSO
Questo libro è una rivelazione per tutti noi, ma lo è ancora di più per chi di noi, per professione, cura persone traumatizzate.
Affinché non si cada mai nella presunzione di capire, di sapere, di guarire, ma si resti a fare gli sherpa del cammino che chi accompagniamo ha scelto di voler fare, portando i carichi più pesanti quando le salite sono troppo ripide, mettendo in sicurezza i percorsi quando sono troppo esposti e infondendo coraggio durante le notti di tempesta.
Affinché l’esploratore o l’esploratrice che si affida a noi terapeuti-sherpa arrivi in cima al suo percorso e celebri la propria vittoria, si trattasse di circumnavigare il globo oppure di raggiungere sui propri piedi la fine del corridoio di casa.
Bene, gatto. Ci siamo riusciti – disse sospirando.
Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante – miagolò Zorba.
Ah sì? E cosa ha capito? – chiese l’umano.
Che vola solo chi osa farlo – miagolò Zorba”.
(Luis Sepúlveda)
Dott.ssa Rita Erica Fioravanzo
Approfondimenti e spunti
Henri-Louis Bergson, Durée et simultanéité, à propos de la théorie d’Einstein (1922), tr. Paolo Taroni, Durata e simultaneità (a proposito della teoria di Einstein) e altri testi sulla teoria della relatività, Pitagora, Bologna 1997
Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Collana Saggi n.309, Torino, Einaudi, 1962
Luis Sepúlveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, traduzione di Ilide Carmignani, Salani, 1996