Sabato 8 maggio 2021, Kabul, Afghanistan – centinaia di studentesse escono dalla scuola di Sayed al-Shuhada, nel quartiere di Dasht-e Barchi, quando tre esplosioni in rapida successione devastano la zona. Il bilancio è drammatico: almeno 85 morti e 150 feriti, la maggioranza ragazze fra gli 11 e i 15 anni di etnia hazara, forse uno dei più perseguitati tra i gruppi che vivono nel Paese. Cosa è successo, in dettaglio? Perché? Ce lo racconta Francesco Teruggi, Dottore in Psicologia – Master in Middle Eastern Studies, Collaboratore Area Transculturale IEP.
Attacco al futuro dell’Afghanistan
Mentre si discute del definitivo ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, il Paese viene attraversato da nuove violenze che lasciano poche speranze e parecchie preoccupazioni sul futuro.
APPROFONDIMENTO
I fatti
Dopo un anno dal massacro in un ospedale di Medici Senza Frontiere, la zona di Dasht-e Barchi, nella parte occidentale di Kabul, è stata scossa nuovamente sabato 8 maggio da tre esplosioni in rapida successione nei pressi dell’istituto Sayed al-Shuhada.
Inizialmente, un attentatore suicida ha fatto detonare un’autobomba ai cancelli della scuola, proprio alla fine del turno dedicato alle ragazze, che si sono così riversate nelle strade del quartiere. E qui altri due ordigni sono stati innescati.
Il bilancio racconta di almeno 85 morti e 150 feriti, dei quali la maggior parte sono ragazze afghane fra gli 11 e i 15 anni.
A colpire non è solo la giovane età delle vittime, ma anche il luogo dell’attacco: Dasht-e Barchi è infatti casa di quasi un milione di afghani di etnia hazara, una popolazione in gran parte sciita originaria del massiccio centrale, noto proprio come Hazarajat.
Ad oggi, nessun gruppo ha rivendicato l’attentato.
Gli osservatori internazionali hanno però rivolto l’attenzione a due gruppi in particolare.
In primo luogo, i talebani sono stati accusati dal Presidente Ashraf Ghani di essere responsabili delle violenze che stanno lacerando il Paese, nonostante i difficili tentativi di dialogo fra Kabul e il movimento di ‘studenti’ che si riconosceva nel Mullah Omar. Zabinullah Mujahid, portavoce dei talebani, ha inoltre negato ogni coinvolgimento e ha proclamato tre giorni di cessate-il-fuoco per l’Eid al-Fitr, in occasione della fine del mese di Ramadan.
In secondo luogo, si è ipotizzato un coinvolgimento del sedicente Stato Islamico (IS), e più in particolare del wilayah Khorasan (IS-KP), ovvero la ‘provincia locale’ di IS. A suffragare questa tesi vi sarebbe anche la somiglianza con la tecnica delle esplosioni sequenziali già utilizzata dallo Stato Islamico in Iraq nella guerra civile irachena.
Perché gli hazara?
I sospetti su IS e talebani ricadono però prima di tutto per l’atteggiamento avuto da questi gruppi nei confronti della popolazione hazara. Eppure, a ben vedere, le pressioni contro questa popolazione hanno un’origine ben più lontana e, nel corso degli anni, hanno assunto tratti e motivazioni diverse: politiche, etniche, confessionali e tribali.
Isolati territorialmente, largamente autonomi politicamente e dediti all’agricoltura, gli hazara si scontrarono già alla fine del XIX secolo con lo Stato centrale guidato dall’emiro Abdul Rahman Khan, interessato a formare uno Stato che prescindesse dai legami tribali, storicamente forti nel Paese, a vantaggio di una nazione connotata religiosamente.
Per circa un secolo, gli hazara hanno poi vissuto svariate ondate di repressione, riuscendo via via ad assumere un ruolo più attivo nella vita del Paese.
Con il parziale aiuto dell’Iran, essi hanno formato infatti un gruppo di resistenza sciita durante l’occupazione sovietica, l’Hezb-e Wahdat, al fine di controbilanciare le rivendicazioni dei principali gruppi sunniti di mujaheddin, noti come I Sette del Peshawar.
Con l’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, però, più che la religione ha potuto la politica: la leadership dell’Hezb-e Wahdat si è spaccata e i diversi campi si sono alleati a più riprese con gruppi sunniti di diverse etnie nel tentativo di accedere al potere, che per la prima volta in molti anni erano in mano a gruppi non pashtuni, tradizionalmente detentori del potere nel Paese.
Dal 1996, però, la situazione è precipitata.
I talebani, sfruttando l’instabilità di un governo non pashtun, il supporto del Pakistan e il vuoto di potere a Kandahar, riescono ad occupare i principali centri del Paese.
Con la presa di Mazar-e-Sharif nel 1998, i talebani si accaniscono sugli hazara dichiarando, illegittimamente, il jihad.
In pochi giorni, fra i 2000 e i 5000 hazara vengono uccisi.
Alla base di questa violenza, culminata con la triste distruzione dei famosi Buddha di Bamyan, si possono identificare tre fattori.
- In primis, i talebani avevano un forte orientamento anti-sciita, influenzato dal movimento riformista islamico deobandita.
- In secondo luogo, i talebani attribuivano poco valore all’affiliazione tribale.
- Infine, sconfiggere la resistenza hazara permetteva di entrare in controllo di un hub strategico come Mazar-e-Sharif.
Nonostante il rovesciamento del regime talebano nell’autunno 2001 e il miglioramento generale delle condizioni di vita, gli hazara hanno attraversato momenti difficili dalla formazione del Governo di Unità Nazionale nel 2014.
La filiale locale dell’autoproclamatosi Califfato ha infatti preso di mira primariamente gli hazara sciiti, un ‘Altro’ da eliminare in quanto apostata in una società perfetta da realizzare immediatamente.
Come ricostruito per l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, si è assistito a una ripresa di attentati contro scuole, moschee e attività commerciali hazare per mano dei talebani, di IS-KP e altri gruppi non statali.
Fra il 2014 e il 2019, si sono registrati almeno 20 attacchi che sono costati la vita a 850 civili: solo uno non è stato rivendicato dai talebani o da IS-KP.
In aggiunta, le già indebolite forze di sicurezza afghane sembrano aver assunto un atteggiamento passivo, al punto che un parlamentare hazaro ha dichiarato al New York Times che l’attacco «ci obbliga a prendere in mano le armi e difenderci da soli».
Perché le donne?
Dalla ricostruzione dell’evento emerge chiaramente come l’attacco di Dasht-e Barchi abbia anche una dimensione di genere, in un Paese in cui la condizione delle donne è costantemente scrutinata dagli osservatori occidentali.
Durante il governo talebano degli anni ’90 del Novecento, è stato istituito un Dipartimento per la Promozione della Virtù e la Prevenzione dei Vizi, sotto l’egida di Maulvi Qalamuddin.
Oltre a regolare comportamenti e a dettare costumi femminili nello spazio pubblico, il primo editto emanato dal Dipartimento ha vietato alle donne qualunque attività lavorativa, ad eccezione del settore sanitario.
La ricaduta sull’educazione è stata evidente.
Secondo la Banca Mondiale, nel 2001 solo il 21% di bambini maschi frequentava scuole pubbliche, che invece erano bandite per le ragazze. Se è vero che la situazione è migliorata, il tasso di alfabetizzazione è ancora largamente influenzato dal genere e dall’età: nel 2018 solo il 30% delle donne e il 55% degli uomini over 25 era alfabetizzato.
Per i più giovani, invece, il tasso si assesta al 56% per le ragazze e il 74% per i ragazzi.
Di fronte a questi dati emerge in tutta la sua brutalità un attacco diretto a giovani studentesse.
È come se i tentativi degli anni ’90, a lungo termine fallimentari, di assoggettare il corpo femminile abbiano lasciato spazio a una tendenza più violenta: l’eliminazione fisica da parte di un potere repressivo che non agisce più solo sui corpi, ma contro i corpi di studentesse indifese.
E così il rischio, nota la co-direttrice della divisione per i diritti delle donne di Human Rights Watch, Heather Barr, è che si crei un sentimento di terrore che convinca le famiglie afghane a non mandare più le proprie figlie a scuola, ferendo irreparabilmente la ricostruzione di un Paese in guerra da 40 anni.
Francesco Teruggi
Dottore in Psicologia – Master in Middle Eastern Studies
Collaboratore Area Transculturale IEP
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In breve
Sabato 8 maggio, Kabul, Afghanistan: centinaia di studentesse escono dalla scuola di Sayed al-Shuhada, nel quartiere di Dasht-e Barchi, quando tre esplosioni in rapida successione devastano la zona. Il bilancio è drammatico: almeno 85 morti e 150 feriti, la maggioranza ragazze fra gli 11 e i 15 anni. Sono in gran parte figlie di famiglie povere, che cercano di costruirsi un futuro migliore. Ma sono anche di etnia hazara, uno dei tanti gruppi che vive nel Paese, ma forse uno dei più perseguitati.
Originari del centro del Paese, l’Hazarajat, e professanti lo sciismo, essi hanno sofferto numerose ondate di persecuzioni, che risalgono alla fine del XIX secolo per mano dell’Emiro di Ferro, Abdul Rahman Khan.
La popolazione hazara è stata sistematicamente messa ai margini, se non oppressa, per svariati motivi. In particolare, nella storia recente, l’Afghanistan è quasi sempre stato dominato da un élite di etnia pashtun professante il sunnismo, che mal si conciliava con l’etnia hazara in gran parte sciita.
Se negli anni ’80 del Novecento, però, la competizione fra i diversi gruppi di mujaheddin si risolveva spesso in alleanze di convenienza interetniche e interconfessionali, la situazione è mutata radicalmente con la salita al potere dei talebani nel 1996.
Il gruppo originario di Kandahar si è infatti macchiato di crimini atroci contro gli hazara, come il massacro di migliaia di civili a Mazar-e-Sharif nel 1998 o la distruzione dei Buddha di Bamyan, culla della cultura hazara, nel 2001.
La caduta del regime dei talebani a fine 2001 ha segnato l’inizio di un periodo più fortunato per la popolazione hazara, che ha visto riconoscersi pieni diritti civili e politici con la Costituzione del 2004.
Tutto è cambiato, ancora una volta in peggio, dal 2015 quando la provincia locale del sedicente Stato Islamico (IS) si è scagliata contro gli hazara, considerati apostati. Da allora, il mancato debellamento di IS, il rafforzamento dei talebani e le difficoltà del governo di Kabul si sono tradotti in decine di attacchi contro la popolazione hazara, che sono costati la vita a circa 850 civili.
L’attentato dell’8 maggio, non ancora rivendicato, non ha però solo voluto colpire una popolazione già martoriata, ma ha preso di mira delle giovani studentesse, veicolando un messaggio chiaro. Quando i talebani governavano l’Afghanistan, le ragazze non potevano frequentare la scuola.
Da allora, nonostante mille difficoltà, ci sono stati anche progressi: circa un terzo di tutti gli studenti sono ragazze. Il rischio, dunque, è che questo attacco spinga migliaia di bambine a lasciare la scuola, spingendo il Paese indietro di vent’anni e allontanando ancora di più un futuro migliore.